Discorso
Completo
Giovani Amici, Signori,
Io sono venuto qui tra voi, accogliendo il cortese invito della vostra Presidenza, non tanto come Canavesano tra Canavesani, quanto come universitario fra universitarii; l'Università, alla quale ho dedicato tanti anni della mia vita, è per me come una patria spirituale; l'aderire al vostro invito mi è sembrato quasi un dovere del mio stato. E tanto più volentieri ho ceduto al vostro desiderio, in quanto l'iniziativa di un'Associazione universitaria regionale mi è sembrata degna del più vivo incoraggiamento; io sono persuaso che questa vita corporativa può esercitare sulla vita dello studente un'influenza benefica, quando non si esaurisca in frivolezze e, senza rinunciare ai privilegi della giovinezza, non perda del tutto di vista le finalità più serie della vita. In questo senso io auguro si svolga la vostra giovane Associazione; senza entrare in particolari, che sarebbero qui fuori di posto, io vi parlerò oggi appunto di quello che è l'aspetto più alto e serio della vostra vita universitaria, dei fini che voi dovete aver di mira in questi anni e che la vostra Associazione può aiutarvi a conseguire. Il ricordo degli anni universitari, che resta così vivo e luminoso per tutta la vita, deve senza dubbio il suo carattere anche al fatto che esso compendia in sé il ricordo del tempo beato della giovinezza, degli anni in cui l'uomo s'affaccia alla vita. senza sentirne ancora i pesi e i dolori; ma non è soltanto questo: esso ha le sue radici in qualche cosa di più grave e di più profondo. Negli anni universitari il giovane non è solo chiamato a guadagnarsi, attraverso gli esami, un diploma, che gli permetta di aspirare all'esercizio di determinate professioni; ma è chiamato anche, anzi soprattutto, a partecipare al mondo dell'intelligenza, a trasformare la sua umanità, ad entrare a far parte di quella minoranza in cui si riassume la vita culturale della nazione e che è, sotto ogni aspetto, il fondamento vero della sua civiltà. Questo non è un fenomeno isolato nella storia dell'incivilimento umano. Anche nelle più rozze società primitive la collettività è sempre accentrata intorno ad un nucleo centrale, variamente organizzato, che comprende i più forti, i più abili, i più intelligenti, i più atti insomma a dirigere e difendere la vita del gruppo: e la partecipazione a questo gruppo è condizionata da prove, da periodi di preparazione e di iniziazione, che, nelle civiltà diverse, assume gli aspetti più diversi. E naturale per esempio che, nelle società inferiori, nelle quali le doti essenziali sono il coraggio e la forza, il giovane debba dimostrare, attraverso prove pericolose e spesso crudeli, le sue doti di resistenza e di energia fisica: presso cacciatori di teste dell'isola di Borneo, il giovane non può far parte della società degli uomini finché non ha portato, come trofeo, una testa recisa. Presso di noi le doti fondate sulla superiorità fisica non hanno certo perduto ancora tutto il loro prestigio; ma la selezione sociale si opera in generale in base ad altri principii; l 'aristocrazia che essa tende a costruire è soprattutto un'aristocrazia intellettuale e culturale, e l'istituto sociale, in cui si riassume quest'opera di preparazione e di selezione degli elementi sociali, è l'Università. Da questo punto di vista voi vedete che ciò che si opera in voi durante questi anni, non è solo la preparazione meccanica di una laurea; è un'iniziazione spirituale, un'elevazione verso un grado superiore dell'umanità; anche se voi non ne avete chiara coscienza, essa è la rivelazione d'una vita più alta, la vita della coltura, che voi siete chiamati a realizzare in voi, a conservare ed a difendere. Questo concetto della vita universitaria vi farà apparire, io spero, sotto un altro aspetto l'Università, questa vostra madre spirituale, la cui tradizione è qualche cosa di sacro e di infinitamente superiore alle persone, che ai vostri occhi la rappresentano; e vi farà comprendere come Fichte l'abbia paragonata alla chiesa: ed una chiesa essa è veramente, la chiesa in cui si prepara, in tutte le sue forme, la civiltà dell'avvenire. Essa comprende in sé, direttamente o indirettamente, tutta la preparazione culturale di un popolo, cioè quello che esso ha di più vitale e di più sacro; tanto più in un paese, come il nostro, di scarsa vita culturale, l'Università è la condizione, la sede e il centro di tutta la sua civiltà. Questo vi farà apparire sotto un altro aspetto il vostro medesimo compito di studenti universitari, compito che, come già ho detto, non è solo quello di strappare come che sia una laurea all'indulgenza dei vostri esaminatori. Questo non è che l'aspetto esteriore della vostra vita; ma quello che veramente si compie in voi in questi anni, e nella scuola e fuori dalla scuola, (anzi più fuori della scuola che nella scuola), è la trasformazione spirituale della vostra personalità. Il primo ideale vostro, in questi anni, nei quali siete liberi dalle cure della vita, deve quindi esser quello di gettare i fondamenti della vostra cultura personale, di aprire l'animo vostro a tutte le correnti dell'intelligenza, di non chiuderci nella cerchia degli studi professionali, di rendervi atti a considerare tutti gli aspetti ed i problemi della vita con la chiaroveggenza che è propria dell'animo raffinato dalla coltura. Ed a questo fine serve tutto ciò che giova a dirozzare l'anima e ad introdurla nelle grandi tradizioni della coltura umana: il culto di un'arte, l'amore disinteressato d'una scienza, l'interesse, intelligentemente coltivato, per i problemi filosofici e religiosi e soprattutto la fuga dalla volgarità, il desiderio sincero cli elevarsi al disopra della sfera degli interessi della vita inferiore. E l'attitudine vostra in questi anni è tanto più importante, in quanto essa decide dell'attitudine per tutta la vita; ciò che deve da voi iniziarsi in questi anni, per opera vostra, indipendentemente dalla scuola, o si compirà adesso o non si compirà mai più. Perché la vostra iniziazione alla coltura non è qualche cosa che debba chiudersi negli anni dell'Università; è un'opera che, iniziata sui banchi dell'Università, dovrà continuare anche dopo e consolare, elevare, nobilitare tutta la vostra vita. Voi non dovete credere che il giovane, che esce dall'Università con una laurea, sia già una persona colta; all'Università egli si è conquistato, al più, la possibilità di crearsi una cultura. Ma se, negli anni universitari, egli non ha avuto altra mira che gli studi professionali e gli esami, non è da meravigliarsi se, dopo la laurea, la vita inferiore lo rifarei rapidamente, cancella in lui ogni reminiscenza d'una vita migliore, ogni aspirazione un poco più elevata e ne fa un volgare professionista, che attingerà d'ora innanzi tutta la sua ricchezza mentale dal giornale del mattino e non differirà da un operaio se non perché, mentre questi maneggia il martello o la cazzuola, egli maneggia un ricettario o un codice. Non è necessario che io ricordi a voi il valore che ha la coltura per l'individuo. I bisogni e le difficoltà della vita ci costringono a sacrificare una parte più o meno notevole del nostro tempo e delle nostre energie alla conquista del benessere materiale: questo è ragionevole ed è umano: primum vivere, deinde philosophari. E vi è, purtroppo, una parte notevole dell'umanità che, alla soddisfazione delle necessità della vita, deve dedicare tutte le sue forze: questo è l'aspetto più doloroso della ingiustizia sociale. Perché la vera e più grande disgrazia di quelli (e sono la grande maggioranza) che debbono, per vivere, faticare da mattino a sera, non è la mancanza degli agi della vita; è, se anche essi non lo sanno, la forzata rinuncia a tutte le raffinatezze della vita dello spirito. Ma quelli che, senza esservi costretti, passano tutta la loro vita, come affetti da una malattia insaziabile, ad accumulare i mezzi materiali della vita senza mai pensare al loro fine, che è la personalità interiore, la quale dovrà disporne e goderne, sono giustamente paragonati da Schopenhauer a dei pazzi. Perchè, si apprezzi pure il valore dei beni esteriori tanto quanto si vuole, ma è certo che una personalità superiore condurrà, anche in condizioni modeste, una vita infinitamente più desiderabile di quella che possa condurre un animo grossolano in mezzo a tutti gli splendori. Schopenhauer distingue i beni della vita in tre classi: quello che si sembra, quello che si ha e quello che si è. La prima categoria, quello che si sembra, cioè quello che siamo nell'opinione degli altri, ha poca importanza, anche se la vanità umana è solita tenere il più gran conto. Ben più importante è quello che si ha e più ancora quello che si è, quello che si è interiormente, la personalità intellettuale e morale: questo è ciò che veramente decide della felicità della vita. Questa non risiede, come l'intelligenza comune si immagina, nelle grandezze e negli splendori; la vera felicità è una vita libera dai bisogni materiali e messa al servizio d'una personalità moralmente e intellettualmente raffinata. Non sacrificate quindi il superiore all'inferiore: tenete il debito conto delle esigenze materiali, ma non dimenticate che tutto quello che farete in questo senso, non avrà alcun valore, se non terrete conto anche di quello che dovete essere voi nell'intimo vostro. Anche oggi quindi, accanto alla laurea, agli studii che vi daranno il pane, coltivate altri e più nobili studii disinteressati: l'arte, la letteratura, la storia, la filosofia., e più tardi non lasciatevi mai assorbire interamente dalle occupazioni professionali, non lasciatevi ridurre a dei meccanismi, conservate nella vostra vita, come dice Montaigne, un retrobottega tutto vostro e libero, che sia per voi come un rifugio dalle volgarità della vita. A questo si risponde spesso che non vi è più tempo. Questo non è vero: non vi è vocazione, non vi è energia: questa è la verità. Marco Aurelio trovava tempo, mentre era accampato contro i barbari ai confini dell'impero, di stendere i suoi ricordi: e il peso dell'impero romano non gli impediva di occuparsi di filosofia. «Se tu avessi ad un tempo una matrigna ed una madre - egli dice a sé stesso nei suoi ricordi - tu avresti dei riguardi per la prima, ma alla madre ritorneresti ad ogni istante. La tua matrigna è la corte; la madre è la filosofia. Torna sempre dunque a questa e riposa sul suo seno; è questa che ti rende l'altra sopportabile». (M. Aurelio XI, 12). Ma voi dovete considerare il problema della cultura anche sotto un altro aspetto, sotto l'aspetto sociale. Un paese tanto vale quanto vale la sua coltura: e la coltura d'un paese non si misura dalla grandezza dei genii che produce, ma dal grado medio di coltura delle sue classi dominanti. Ora, sotto questo riguardo, noi non dobbiamo farci illusioni: l'Italia non è un paese colto. L'Europa può esser divisa in due metà: l'una comprendente paesi ad alta cultura — la Francia, la Svizzera, la Germania, l'Olanda, il Belgio, la Danimarca, l'Inghilterra, i Paesi Scandinavi —; l'altra i paesi a bassa coltura: la Spagna, la Grecia, l'Ungheria, la Polonia, la Russia, ecc. Sotto il rispetto della c oltura, a quale di queste due categorie s'avvicina di più l'Italia? Certo, se guardiamo alle apparenze, questa domanda potrà parere strana: l'Italia ha tutte le apparenze di un paese altamente civile. Ma la civiltà di un paese non si misura dalle apparenze, dal numero delle automobili che corrono o dal lusso delle donne; che anzi il lusso, più che un segno di civiltà, è, in certe forme, un carattere barbarico. Ma noi dobbiamo piuttosto chiederci: a che livello sono le scuole, le università, le biblioteche? Qual è in Italia la fortuna del libro? A che livello è la coltura media della sua borghesia? A queste domande noi non potremmo dare che delle risposte dolorose. Io mi appello del resto, quanto all'ultimo punto, alla vostra stessa esperienza. Quante persone, cosiddette colte, del vostro ambiente, voi conoscete che siano capaci di rico-noscere lo stile d'una chiesa, che abbiano letto Leopardi, Goethe, Anatole France, che sappiano con qualche precisione che cosa è il profetismo ebraico? Quante sono le persone colte di vostra conoscenza capaci anche solamente di distinguere, con una certa sicurezza, i libri dell'Antico e del Nuovo Testamento? Questa deficienza della coltura della nostra borghesia rende possibili tanti altri fatti caratteristici della mentalità dei popoli semicolti; tra il resto, per esempio, il fiorire dalla pseudocultura, della coltura s uperficiale e ciarlatanata, che ha invaso la nostra vita. E questo è naturale. Là dove è diffuso un sincero e illuminato sentimento religioso, la falsa religiosità, cioè il clericalismo, non può trionfare: il clericalismo prospera soltanto dove e quando la religione è diventata una cosa morta. E così è della coltura intellettuale e delle sue degenerazioni. Ma le conseguenze della coltura o non coltura di un paese si riflettono nel campo pratico sotto altri punti di vista assai più gravi. Uno degli effetti più immediati della coltura è quello di affinare la chiaroveggenza dello spirito, di rendere possibile quella visione netta, chiara e profonda delle cose della vita, anche nelle loro più delicate sfumature, che è uno dei caratteri ai quali riconosciamo senz'altro la persona intellettualmente superiore. Ora, questa chiaroveggenza è un dono dello spirito che rende subito impossibile, ridicola, repugnante quella piaga della nostra vita sociale che è la retorica. La retorica è l'effetto e il segno visibile della superficialità e grossolanità dello spirito: là dove fiorisce, è il sintomo di una civiltà in decadenza. Non è necessario che io vi richiami alla mente quanta parte ha purtroppo la retorica nelle nostre chiese, nei nostri comizi politici, nella stessa nostra vita accademica, e quanta sia l'influenza che essa ha non soltanto sul pubblico meno colto e meno intelligente, ma anche su quella parte che è considerata come la classe colta della nazione. Questo è un giudizio molto significativo sul vero grado della sua cultura: se l a retorica è la forma plebea dell'eloquenza, ciò vuol dire che la nostra borghesia è in gran parte ancora plebe. È inutile esporre qui le conseguenze di questo stato di cose: a me basta richiamare su di esso la vostra attenzione e farvi vedere quanto sia desiderabile, anche sotto questo aspetto, che la gioventù, la quale si prepara oggi nelle università a dirigere domani i nostri destini, comprenda la necessità di coltivare il proprio spirito, di levarsi al di sopra di questa miseria mentale, di rendersi veramente atta a comprendere e giudicare, con sguardo sicuro e profondo, i problemi della vita. Un altro effetto della coltura, effetto più mediato e più lento, ma della più alta importanza, è quello che essa ha sopra la nostra vita morale. La coltura, quando sia vera coltura, e non soltanto erudizione parziale e superficiale, ci rivela, accanto alla realtà quotidiana, un'altra realtà: una realtà ideale, un mondo di valori spirituali, nel quale, a poco a poco, l'uomo ritrova i suoi interessi più essenziali, i suoi fini più alti. Poco per volta, il centro di gravità della sua vita si sposta dal mondo delle volontà materiali ed egoistiche in questo mondo ideale: la vita si spiega, prende un'altra forma, si abitua a servire agli interessi superiori. Ed in questo mondo di valori spirituali, uno si impone a tutti gli altri come loro fondamento e loro principio: questo è il valore morale, il valore della coscienza pura e diritta. Con questo non voglio dire che sia necessaria la cultura per essere uomini onesti: vi sono nell'umanità tradizioni naturali di bontà e di rettitudine, lo sappiamo bene, che sono indipendenti dalla cultura personale. Ma già il vecchio Socrate diceva che la virtù è sapere: e voleva dire, in fondo, con questo, quello che anch'io dico: e cioè che le stesse tradizioni naturali della bontà e della rettitudine sono tradizioni create dalla cultura collettiva e che, in modo particolare, per l'individuo, soltanto la coltura può svolgere quei germi di bontà naturale in modo da creare una vera personalità morale. La coltura trasforma l'uomo semplicemente onesto in un uomo che ha coscienza del valore della sua volontà morale: gli fa comprendere che, nel conflitto degli interessi e delle forze, che agitano le società, una cosa sola ha valore assoluto: ed è la volontà che parla, come legge del dovere, nella coscienza dell'uomo retto. Quindi riconosce la dignità e il diritto di questa coscienza; e il dovere che egli ha di subordinare rigorosamente la sua vita a questa coscienza senza osservare a nessun interesse, a nessuna volontà estranea. Tra i doveri essenziali dell'uomo Kant pone quello dell'orgoglio, della fierezza morale. Egli dice: non farti servo di nessuno! E questo vuoi dire: non subordinare la tua coscienza ai timori ed alle speranze della vita inferiore: non avvilire la tua personalità piegandola servilmente dinanzi ad altri uomini! Soltanto chi sente in sè l'esigenza di questa dignità morale, di questa fierezza inflessibile, è un uomo nel vero senso della parola: il resto è gregge nato a s ervire. E la grandezza dei popoli non si misura dai milioni di individui - perché questi sono zeri - ma dal numero di uomini, di caratteri che essi contano. Un mio amico inglese mi raccontava con legittimo orgoglio che, in occasione di una spedizione diretta dall'Inghilterra contro l'Irlanda ribelle, un certo numero di ufficiali d'ogni grado del corpo di spedizione preferì presentare le proprie dimissioni, anziché partecipare ad una spedizione, che essi moralmente non approvano. Questo vuol dire che erano volontà energiche e diritte, determinate a sacrificare la carriera piuttosto che la coscienza: non mercenari pronti a servire ciecamente chi li paga. Un giornalista polacco, che conobbe di persona le prigioni della Ceka in Russia, narra che buona parte dei funzionari di questa sanguinaria polizia segreta dello stato comunista erano antichi funzionari dell'Ochrana, della famigerata polizia segreta dell'impero zarista. Questi due fatti opposti sembrano particolari senza importanza. Ma sono importanti come sintomi: essi mettono a nudo l'anima di due popoli e ce ne spiegano il diverso destino. Voi vedete dunque che la cultura, in quanto dà all'uomo il senso della fierezza morale, non è soltanto un vano abbellimento della vita, ma è qualche cosa che tocca i più vitali interessi dell'individuo come della nazione. Per quanto si ripeta oggi a sazietà, sulla falsariga di teorie antiquate, che lo stato è f orza, vero è invece che l'essenza dello stato è la giustizia: dove non è giustizia, non vi è stato, ma barbarie. E la giustizia non è un essere mitologico che si libri sulle nostre teste: la giustizia dello stato è fondata e risiede nell'energia morale dei suoi cittadini. Ora, dove sono oggi, io chiedo, il culto della giustizia, il senso della dignità morale, l'attaccamento inviolabile alle leggi della coscienza? Di due punti io sono intimamente persuaso: in primo luogo che sopra tutte le cose l'Italia ha bisogno d'un energico rinnovamento morale; e in secondo luogo che questo, se verrà, verrà dai giovani e da nessun'altra parte. Ed io auguro che questo rinnovamento venga da questa nobile regione, dalla quale parti già una volta la salute d'Italia: da questo nostro Piemonte, che, salvo il breve dominio napoleonico, non conobbe vergogna di servitù straniera e il cui nome richiama le più gloriose tradizioni di libertà, di forza e di fedeltà al dovere. Il motto della vostra Associazione ricorda una fiera sollevazione di popolo che, verso la fine del medio evo, insanguinò queste terre canavesane; questo vuol dire che i nostri padri non erano della stoffa di cui son fatti i servi. E qui, nelle valli vicine a noi, un piccolo popolo seppe conservare la sua fede contro le persecuzioni d ella Chiesa onnipotente e contro le forze unite del re di Francia e dei duchi di Savoia; gettò i suoi bambini nei precipizi e fece la guerriglia sui monti coperti di neve, ma conservò la sua religione. Vi è nel sangue nostro un fondo di tenacia, di rettitudine e di durezza, che ci ha sostenuti attraverso un aspro passato: guardiamo quindi con fiducia l'avvenire. Per questo io ho parlato oggi a voi con cuore aperto, come ad uomini: perché questo avvenire è nelle mani vostre. Lasciate pertanto, ora che sono giunto alla fine, che io ringrazio voi, o giovani amici Canavesani, e la vostra cortese Presidenza di avermi dato l'occasione di rivolgervi queste parole; che io auguri a tutti voi un nobile avvenire degno di uomini intelligenti e liberi; e che, così augurando, saluti in voi la forza, la volontà di libertà e la dirittura incrollabile che sono l'eterna giovinezza del nostro vecchio Canavese.